"Isel", Joë Bousquet

Questo articolo è apparso sul sito Lankenauta il 26 giugno 2021.


Ravvicinati escono per Mimesis due libri di Joë Bousquet (Narbonne 1897 – Carcassonne 1950). È questo un avvenimento editoriale considerevole, dal momento che il lettore di lingua italiana poteva contare solo sulla traduzione di alcune opere di questo straordinario scrittore francese. Tra queste si annoverano Mistica, La conoscenza della sera, Una passante blu e bionda, Il silenzio impossibile, Corrispondenza-Progetto di una formazione di infermiere di prima linea (con Simone Weil) e l’ormai introvabile Il quaderno nero. I due piccoli volumi recenti, entrambi collocati nella collana Minima / Volti, sono Isel (traduzione di Arlindo Hank Toska, a cura di Antonio Di Gennaro) e Tradotto dal silenzio (traduzione di Adriano Marchetti). Se nel secondo caso siamo nell’ambito di una riproposta di quanto già uscito per Lampi di stampa nel 1999, con Isel siamo invece alle prese con novità per le librerie italiane.


Scrittore segnato dalla ferita esiziale che si procurò sui campi di battaglia della Grande guerra, Bousquet ha veleggiato dalla propria stanza, visitata da tanti grandi della letteratura e della filosofia francese, alla stregua di uno star rover londoniano, imprigionato dal corpo guasto e tremendamente limitato nel movimento. In simili casi succede spesso che si richiamino per forza quelle visioni che vogliono la grazia, e quindi la grazia artistica, accresciuta dal malanno fisico. Di fatto una grazia della fantasia e del rischio della scrittura è accarezzata da Bousquet in tutto il suo vagabondare di brevi prose, che troviamo tanto in Isel quanto in Tradotto dal silenzio. Isel è una donna di fantasia, è un nome in cui appoggia un languore d’amore (e d’amore Bousquet ha scritto più di ogni altro), precipitato di una prosa che si sviluppa per brevi nuclei, graffi o gomitoli di venti che giocano una partita apertissima con la nostra immaginazione e possibilità di scoprire. Il passo di scrittura è sbranato dalla contraddizione tra tocco e immaterialità, prossimità e distanza, dal fatto nudo (e forse anche crudo) che l’immaginazione e la finzione non arrivano ovunque perché “pensare sempre la persona che ami non è tutto l’amore. Questa continua attenzione attende la ricompensa di una dolcezza più completa, che non si può immaginare”. Poco prima Bousquet aveva scritto: “Costa vivere… Costa la vita di tutto ciò che ci rende presente. Guarda fino a che punto dobbiamo situare le cose per restituire loro il proprio sollievo. Vedo bene solo il mondo in cui io non ci sono più.” E ancora: “Hai condiviso la mia vita: abitavamo la stessa casa, i miei occhi non mi appartenevano… Fuori di noi, non c’era né presente né passato… Da quando ti sei allontanata, il mondo ha preso il mio posto; e va e viene, indifferente come il mare in un giorno di partenza. Tutto ciò che accade si racconta.”

L’invocazione all’amica lontana, l’amore di Isel, quell’amore che vede tutta (ma davvero tutta) la nostra vita, è sogno e desiderio che si saldano in preghiera, richiesta di scrittura a sua volta (“le tue lettere sono colombe morte. Tutte quelle che conservo e rileggo”). E dunque la perdita del corpo, quantomeno di una sua parte fondamentale, come diventa scrittura? Potrebbe essere questa una domanda che intravediamo tra le righe di Bousquet?


L’opera, divisa nelle parti “Lettere a Isel” e la più breve “Spartito”, dedicata all’artista dei Phénomènes Jean Dubuffet, uscì postuma per Rougerie nel 1979. Anche qui, così come in Bataille, si intuisce come molti scrittori francesi superarono la costellazione surrealista, nella quale inizialmente si trovarono immersi, attraverso un arco che dalla surrealtà di sogno e allucinazione precipita all’altro lato, opposto, su quella prensilità così dura che solo certa scrittura cosiddetta mistica sa sfiorare, asintoticamente, attraverso una modalità che abbandona l’automatismo surrealista. Non si tratta di un paradosso, perché è proprio in queste scritture che il testo scivola meno e non disperde calore, facendosi incandescente. All’opposto dello scivolamento e della dispersione, sorge quindi un testo che si aggrappa al fulcro e sguarda a tutte le potenzialità di direzione (María Zambrano e Edmond Jabès potrebbero essere altri caposaldi, quest’ultimo a tratti persino sintatticamente risuonante con Bousquet). Tra il momento in cui la parola, la vera creatura, è pensata e il momento in cui questa tace sembra che un sovrano sia atteso, scrive nell’altro libro, Tradotto dal silenzio (e del resto anche Isel è “regina”). E questa considerazione captata in Tradotto dal silenzio aderisce a Isel, e quel sovrano assomiglia a volte alla vita (un blocco scolpito dall’interno), altre volte alla follia, a quel frangente di liberazione che la scrittura consente (in questo Bousquet non è lontano da Cioran, come osserva Antonio Di Gennaro nella sua premessa). Tornando sul finire ai discorsi iniziali e per sigillare questa segnalazione con alcune parole sulla rovinosa vicenda biografica che sempre è chiamata in causa con Bousquet, ci chiediamo: tra il pensiero, la scrittura e l’essere deperito e guasto c’è dunque un legame? Può darsi, ma alla fine non è altro che un legame.

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