Maria Anna Mariani, "Voci da Uber"

Questa recensione è uscita sul sito "Lankenauta" in data 25 ottobre 2019.


Uber, esempio tipico di sharing economy al pari di Glovo o CouchSurfing, è una delle prime aziende di trasporti a puntare tutto su veicoli pilotati automaticamente. Le criticità sono ancora molteplici e per il momento alla guida delle macchine che girano per conto dell’azienda fondata dieci anni fa a San Francisco da Travis Kalanick troviamo ancora delle persone. Molteplici tratte nell’area metropolitana di Chicago costituiscono l’impalcatura del libro Voci da Uber di Maria Anna Mariani, pubblicato da Mucchi editore nella collana “Diorami” a cura di Massimiliano Borelli. Gli elementi ricorsivi e variabili di questo esperimento si declinano in: estremi del tragitto, durata, caratterizzazione sintetica del traffico, modello di auto, media delle valutazioni del conducente e quindi nella narrazione che ne trae l’autrice. I singoli capitoli che compongono questa galleria potenzialmente inesauribile diventano brevi biografie degli autisti, in molti casi immigrati, come l’autrice stessa. Si assiste poi a una progressiva mappatura di una delle più grandi metropoli d’America, con le sue zone profondamente diverse e staccate, il lago, gli aeroporti, un traffico che può essere noncurante, precoce, preventivato, costernante, rancoroso, volenteroso, buonista.

Assieme alla biografia e all’autobiografia, solchi di ricerca che fra l’altro marcano anche gli interessi teorici dell’autrice, è nel perimetro del diario senza date che si manifesta un’ulteriore intersezione con i suoi studi critici. Intendo “diario” come un’abitudine di recollezione per iscritto e di testimonianza. Qui sussiste il punto di contatto più immediato con Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche pubblicato da Exòrma nel 2017. In quel caso la scoperta del “nuovo”, unita alla privazione del “vecchio”, diventa una ricognizione lucidissima su affetti vecchi e nuovi, condotta nella cornice di un consuntivo esistenziale che, ontologicamente, non può che sfuggire. In Voci da Uber è l’elemento dell’estraneo-conducente, intercettato una sola volta e per poco, a smuovere una scrittura che si caratterizza per uno spiccato ingrediente performativo e di straniamento.

La scrittura, quando adeguatamente manovrata, non è altro che un nome diverso della conversazione. Così sosteneva Sterne in un passo celebre di Tristram Shandy. Voci da Uber è in linea con tale assunto e l’invito per il lettore è verificare come la prosa è domata, incanalata, fatta dilagare o corruscare con la mimesi di cui è portatrice. Al fondo, il libro di Mariani è immerso nella sempiterna discussione sul realismo in letteratura, se è vero che le vite particolari che incrociano per poco sull’isola mobile dell’auto, con impressione di vicinanza data anche dalla facilità d’uso della tecnologia, sono in realtà fatte incontrare da una chiara esemplificazione di quella forza biocapitalista lontanissima di cui Uber è uno dei vari precipitati nel quotidiano: il libro ha il merito di puntare il dito sull’incommensurabilità tra le vite quotidiane e particolari e le forze generali che affaticano e agiscono sull’economia. Un ulteriore snodo riguarda divieti d’accesso, sensi unici, inversioni a U, rinunce e consapevolezze che plasmano la scrittura: mutatis mutandis, perché chiaramente il paragone è solo esemplificativo, si può notare come l’autrice qui sperimenti il “corpo cavo” che ospita la testimonianza breve dell’autista, similmente a quanto l’autrice stessa aveva visto accadere nel testimone Primo Levi e rilevato nel saggio Primo Levi e Anna Frank (Carocci).

Questo è all’incirca il palinsesto dove si cala una performance di interazione decisa dalla roulette dell’app. Va detto che la performance nella vita quotidiana è goffmaniamente di ciascuno di noi e combacia con la sporgente rappresentazione del sé che pratichiamo quando siamo svegli. In questa scrittura l’accento performativo è però doppio nel versante di chi compra il servizio e perlustra così le possibilità discorsive della piccola chiacchiera, dell’acustica ovattata dell’abitacolo dal quale si assiste alla sbobinatura del paesaggio urbano, prima dell’altra “sbobinatura” che sarà la scrittura. S’avvia così un’indagine sempre nuova nei solchi della confessione, della stigmatizzazione, persino della fiducia, che è presenza sottotraccia di questo scritto anche quando potrebbe mancare (si ricordi il saggio di Niklas Luhmann sulla fiducia). È una performance peculiare che consta di due momenti: quello effettivo del suo accadere e quello successivo della scrittura, nel quale l’universo di sapere, opinioni e idee che precede e compone chi scrive è messo in discussione dallo straniamento di questa “sensata esperienza”, apparentemente così comune e normale.

Che cosa accade dunque quando l’autrice si comporta come un avatar “in missione Uber, che apre la portiera e depone i freni inibitori, tartassa di domande e diventa una scheggia flirtante, immemore e sventata”? Vietato rispondere e proprio per scoprirlo si invita alla lettura del libro. La domanda più corretta da porsi qui è piuttosto un’altra: che cosa accade quando si passa dalla scheggia flirtante alla scheggia filtrante della scrittura? Tutti i titoli dei capitoli di questo libro, ad esclusione dell’ultimo, contengono un nome proprio, da Maledetta memoria: David a Rivelazioni del terzo occhio: Diego, passando per In lotta contro l’effimero: Brianna o Vittoria dell’app: Ming; la configurazione è curiosamente simile alla tradizione del romanzo moderno, nella quale i nomi propri finiscono per simboleggiare qualsiasi vita particolare che si possa narrare in qualsivoglia maniera e nella quale sempre i nomi propri spesso si sono depositati proprio nei titoli delle opere (Pamela, Robinson Crusoe, Adolphe, Madame Bovary, I Malavoglia, Il fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno eccetera). I nomi dei personaggi-autisti di Uber sono voci auscultate in un momento qualsiasi di un lavoro del quale spesso si credono illusoriamente padroni, mentre chi ausculta si traveste da praticante di un’inedita maieutica seriale, insistita, obbediente a una breve perversione (domanda per i buonisti: esistono scritture interessanti senza perversione?).

Sul fronte della scrittura va rilevato che i resoconti non ricorrono quasi mai al discorso diretto e il dato dovrebbe farci riflettere sulla condizione di questo istituto della narrazione, a maggior ragione in uno scritto che si sviluppa dalla conversazione – le perplessità sul discorso diretto espresse da Vitaliano Trevisan in Works appaiono condivisibili. Reperiamo frasi-frammento prelevate come un tampone cutaneo, ma mai trattate come discorso diretto. Ogni incontro assomiglia ad un attacco sferrato a un nucleo di bestialità umana che rimane sospeso e galleggiante nell’abitacolo, protetto da strati di protesi e rivestimenti che si installano in ognuno di noi anche mediante la conversazione: l’occhio è più spietato, certo, ma la rivelazione, se c’è, diventa un fatto acustico. La performance risulta a volte scorticante in ambo le direzioni, ma ancor più per chi sferra l’attacco – facile poi abbassare la guardia, quando il ghiaccio è rotto, eppure vi è anche una precisa idea di disciplina in questa missione. E non è del tutto vero che la missione avviene nell’alveo di un immemore tartassamento. Che la memoria e il ricordo deformino, depistino o ingannino è risaputo, fuori da ogni dubbio, così come è indubbio che l’autrice attui un percorso che a tratti diventa di straniamento sulla propria memoria. Ma un nocciolo di questione sta forse qui: se la letteratura vuole continuare a essere anche un’operazione significativa sulla memoria, allora va contemplata una scrittura che sporga da un soggetto che può persino apparire a tratti immemore. Memoria e ricordo allora montano rapidissimi come latte dimenticato sul fuoco, in un cammino funambolico e paradossale tra due opposti: da un lato il solipsismo insito in una scrittura con queste caratteristiche, dall’altro il dissolvimento del soggetto nel molteplice e nell’indistinto, nelle liste di realia che si srotolano in queste pagine. L’immagine dell’attraversamento sulla fune potrebbe ambire a descrivere un libro nel quale è la lingua stessa a diventare battito, ipnotico e fluente. E bilanciere. Voci da Uber ci consegna così una prosa che artiglia e sorvola, rapace, all’opposto di quel ravanare prolungato, pornografico, privato o pubblico che sia, apprezzato da molti editori d’Italia.

Un rinvio, in chiusura: nel 2013 uscì un film di Steven Knight intitolato Locke e girato quasi tutto dentro una BMW X5 occupata soltanto dall’attore Tom Hardy. La macchina da presa insegue Ivan Locke dal momento in cui finisce di lavorare e incomincia a guidare in un traffico definito molte volte, in maniera ipnotica, “scorrevole” e a fare al contempo una lunga serie di telefonate (voce di Locke limpida, altre voci metalliche dal vivavoce). La trama è tutta conversazione o monologo, perfino con uno specchietto retrovisore nel quale inizia a palesarsi il fantasma del padre (non è più soltanto lo specchietto retrovisore moltiplicatore di spazio di cui scrisse Italo Calvino, per un uomo nuovo e guardone). C’è una curiosa continuità tra i ripetuti assedi compiuti dall’autrice di questo libro e l’assedio di telefonate che circonda Locke nel suo mancato ritorno a casa (la moglie, il figlio, i colleghi del lavoro che ha abbandonato prima di una gettata di cemento colossale prevista per il mattino seguente, la donna che è rimasta incinta in una relazione effimera e che vuole raggiungere per il parto). Sullo sfondo, con la cangiante questione dell’identità nell’epoca delle tecnologie radicali, si profila il contrasto tra le relazioni profonde di cui parla il film e le relazioni molecolari ed effimere di cui scrive Maria Anna Mariani. A sostanziare questa scrittura e quel riuscito film troviamo una simile capacità dei protagonisti di uscire mutati dalla vita, quasi predisposti a un crollo o a una lacerazione del velo del reale che potrebbe verificarsi da un momento all’altro, mai troppo fedeli a un sé autobiografico dato una volta per tutte e improntato a un’improbabile coerenza interna (proprio il cinema offre tuttora imbarazzante copia di esempi di questa coerenza interna). Ed è così che nel flusso si affrontano delle prove, intese come esecuzione parziale di una performance, come dimostrazione, ma anche come verifica della vita nella scrittura.

Che cosa diventeranno le prove in un futuro dove la tela dell’intelligenza artificiale s’allargherà a dismisura? Come traslerà il loro significato quando non ci sarà più l’altro tizio dentro l’auto? Non sembrano futili questioni, oggi. Il già ricordato Trevisan ha scritto: “tutto ciò che so di me è solo ciò di cui ho le prove; il resto è melanconia”.

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