In un volume degli Oscar intitolato Meglio star zitti? (pp. 500, euro 15, a cura di Luca Daino) trovate radunati quarant’anni di scritti giornalistici cosiddetti militanti di Giovanni Raboni. La quarta di copertina parla di stroncature, ma in realtà non tutti questi 170 scritti lo sono a pieno titolo. Certo, il denominatore comune è più la riserva che l’elogio, mossa di volta in volta a un libro, a un film o a un’opera teatrale. Che scriva di certe opere tarde di Hemingway, del Proust poeta “scarso” ma utile (ricordiamo che tradusse la Recherche), del Tondelli che in Rimini appare più preoccupato della sceneggiatura da ricavare che del testo che sta scrivendo, di Adelphi che in modo arrogante presenta Ingeborg Bachmann come una delle “più grandi” autrici di poesia del nostro tempo (si può essere d’accordo, ma qualcuno si è preso la briga di contarli?), di un Fellini che perde qualche colpo o di un Giorgio Manacorda che con un’operazione di dubbio gusto si autoantologizza, è la cura argomentativa di ogni singolo pezzo a colpire il lettore. Raboni, che per il sito internet Mondadori è ancora vivente – è morto 15 anni fa – fuoriesce da questa pluridecennale cavalcata come imprescindibile critico del Novecento.
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