Questo articolo è uscito su Librobreve nel marzo 2016.
Cento e un ragionamenti di Alain (Einaudi, pp. XLIV-248, a cura di Sergio Solmi, non più in commercio) riapparve nel 1975 nella collana NUE dopo la prima edizione risalente al 1960. L'autore, al secolo Émile-Auguste Chartier (1868 - 1951), aveva combattuto la Prima guerra mondiale da semplice caporale, nel 1917 era rimasto ferito e non aveva mancato di dare un contributo al dibattito con Mars ou la guerre jugée. Il genere sul quale si sarebbe poi più fortunatamente esercitato è quello speculativo-breve ben illuminato dai Propos o da quelli riproposti recentemente da Elliot, Propositi di felicità (sulla base di una traduzione di Anna Maria Rodari già uscita per Editori Riuniti). La carica dei Cento e un ragionamenti qui racchiusi non si esaurisce tra uno e l'altro pezzo (sempre brevi, sempre titolati, 2 o 3 pagine di media per ciascun capitolo), ma dispongono sul piano increspato della scrittura non tanto un sistema filosofico, bensì un metodo di pensiero solleticato continuamente dal reale e dall'accidentalità, come rilevava Solmi nella sua nota. Indeciso tra i suoi "Bachi da seta" e i "Volti", mi son lasciato prendere più dai secondi e dalle loro frantumanti osservazioni finali.
VOLTI
C’è un tipo di espressione che salta agli occhi di tutti. Come certi chiacchieroni non possono trattenersi dal parlare, cosí ci sono occhi, nasi, bocche che non possono trattenersi dall’esprimere. Si vedono individui imperiosi, minacciosi, risoluti, malinconici o sprezzanti nell’atto stesso di comprare un giornale. Ho conosciuto un tale che rideva sempre. Sono tristi prerogative, che rendono stupidi. Compiango quelli che hanno l’aria intelligente; è una promessa che non si può mantenere. Accade in qualche modo che il viso pensi per il primo, e la conversazione reale non giunge mai ad accordarsi con le mute risposte. Suppongo che la timidezza derivi soprattutto dai messaggi che uno invia involontariamente davanti a sé, senza conoscerne nemmeno lui il significato. Così ogni volta che incontro qualcuno con un viso da spadaccino, dovuto a una combinazione di naso, sopracciglia e baffi, riconosco un timido, che per tal ragione può essere anche un violento; come un attore porta il costume, ma non sa la parte.
Da queste piccole miserie deriva un’antica norma di educazione, secondo la quale bisogna esercitare il viso a non dir nulla involontariamente. Lo spirito moderatore deve ritirarsi dapprima sotto apparenze neutre, come sotto un riparo: senza tale precauzione resta schiavo delle apparenze, e sempre in ritardo di una battuta. Lo spirito, il sentimento, persino la bellezza dapprincipio devono esser tenuto nascosti, quasi in riserva. Il valore di un sorriso presuppone per cominciare che non si sorrida agli specchi e ai mobili. Nella Chartreuse c’è una giovane borghese, i cui occhi sembrano conversare con le cose che guardano: paragonate questa scioccherella alla divina Clelia, il cui bel viso non esprime all’inizio che un’indifferenza non infinta. Ma il più bel ritratto della nostra galleria letteraria è senza dubbio quello di Veronica, nel Curé de Village. Veronica, fanciulla meravigliosamente bella, dai lineamenti ispessiti e quasi mascherati dal vaiuolo, ritrova ogni volta la sua primitiva bellezza in virtù di un sentimento profondo. La vera potenza di una donna consisterebbe nell’esser bella quando lo voglia.
Tutto questo si fa sentire nei risultati; cosí la vera civetteria deve sempre guardarsi bene dal piacere; il movimento che piú le si addice è un rifiuto di esser bella: come lo spirito implica sempre ci si rifiuti di comprendere troppo. In fondo, è un abbassare ciò che è naturale e un accrescer valore al libero consenso. Mi sembra quasi di scrivere i consigli di una madre alla propria figlia: ma in tutt’altro senso. Non penso soltanto all’effetto prodotto sullo spettatore: quello che m’importa è il ritorno dei segni che agisce cosí efficacemente su chi li invia. Anche la bellezza divien brutta quando si offre all’ammirazione: è facile trovare prove di quanto dico. La bellezza non riservata esprime subito una certa asprezza e inquietudine, e a volte una specie di stupidità aggressiva. Parimenti i segni dell’attenzione uccidono l’attenzione. L’osservatore, nei suoi momenti migliori, sembra distratto.
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