Questa recensione è apparsa su Librobreve nel marzo 2016.
Wilfred Ruprecht Bion (1897 – 1979) |
Nella copertina blu, in corpo aumentato, campeggia la parola-titolo da sola: oblio. Qualcuno direbbe una parola "poetica". Altri una parola "poco usata". Abbiamo tutti una vaga idea di che cosa sia, di cosa fosse il Lete: si beveva e si dimenticava (per Dante questo fiume si trovava in Paradiso). Se n'è occupato bene e trasversalmente il filologo romanzo tedesco Harald Weinrich in quel libro edito da Il Mulino intitolato Lete. Arte e critica dell'oblio, dove tra le altre cose si puntava il dito su un fatto semplice, paradossale, cortocircuitante: ci siamo dimenticati dell'oblio o magari questa dimenticanza è diventata altro. Del resto, di fronte a certi orrori del Ventesimo secolo si è voluto innestare una sospensione dell'oblio e se ne capiscono chiaramente le ragioni. Ma ancora, andando a ruota libera: "Passa la mia nave colma d'oblio" recita il verso celebre di Petrarca. Oppure Funes el memorioso era invece quell'uomo che ricordava tutto nel racconto di Borges (e che strazio essere "memorioso", forse). Ma esiste davvero l'oblio al di fuori di situazioni cliniche e medicalizzate, come ad esempio l'Alzheimer? In che rapporti stanno oblio e rimozione? Si tratta del contrario e della negazione della memoria e del ricordo? Sappiamo del potere creativo dell'oblio, dell'utilità dell'attività onirica in tal senso. Iniziamo anche a sentir parlare di "diritto all'oblio", al di fuori della normale valenza giuridica di questa dicitura e alla faccia del voler esser ricordati (e la rete gioca la sua parte in questo nuovo dibattito, viste le molte tracce che lascia, sicuramente evanescenti ma pur sempre tracce). Sappiamo insomma che se parliamo di oblio stiamo parlando di qualcosa che, se non ne è l'esatto contrario, va quantomeno nella direzione opposta al tema insistente e da decenni portante della "memoria". La parola "oblio" non è quindi di facile e univoca definizione. Il suo etimo sembrerebbe semplificare drasticamente la questione, riportandoci all'oblivium dei latini, eppure stavolta l'etimologia non ci soccorre del tutto, tanto meno per introdurre al libro-quaderno di oggi. Oblio non è dimenticanza, non è soltanto quella almeno e non perché "dimenticanza" ha assunto le disidratate valenze di una "svista". Sta in questo nucleo di pensieri, volutamente semplificati, un trampolino per tuffarsi nel tentativo di riabilitazione completa dell'oblio contenuto in questo volume della serie "quaderni dell'espressione" pubblicato da Cronopio (pp. 176, euro 15), il quale ci devia verso una forte componente di trascolorazione, di calma e di serenità insite nella possibilità di obliare. Evidenti per il lettore saranno i rimandi alla psicanalisi (dai più normali Freud e Lacan, ai meno scontati Wilfred Ruprecht Bion, Ignacio Matte Blanco e Armando Ferrari).
Scrive nell'introduzione Walter Procaccio, curatore dell'opera, che il quaderno è un'antologia di capitoli in sé chiusi che tentano l'operazione ardua e coraggiosa della riabilitazione dell'oblio. Prosegue scrivendo che "una sterminata letteratura conferisce alla memoria, all'archiviazione diligente, alla testimonianza il rango di dovere etico e all'oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere". Alla fine di tutto, l'intento di chi contribuisce a questo volume è mostrare come l'oblio possa considerarsi "risorsa prosperosa". Insomma, come riporta Paolo Carignani nel suo scritto, l'antitesi che mette di fronte memoria e oblio è ingiustificata in quanto questi sono due atti un unico processo. Per Maurice Blanchot chi vuole ricordare deve affidarsi all'oblio, "a quel rischio che è l'oblio assoluto e a quel caso fortunato che allora diventa il ricordo". Le continue cicatrici con cui si graffia il corpo e l'intelletto, le relative tracce mnestiche e tutto un filone di studi sul trauma possono avere molto più a che fare con l'oblio che con il ricordo. E per molti versi, l'atto di ricordare non ha nulla a che vedere col passato. Di qui, e anche dalla profonda inalienabile necessità dell'uomo di calmarsi, passa questo interessante tentativo di riabilitazione dell'oblio, espresso in questo fascicolo a più voci color carta da zucchero.
L'operazione editoriale di questo quaderno è evidentemente in contrappunto con le tante pubblicazioni che ingolfano il versante apparentemente opposto e contrario della "memoria", soprattutto nei primi mesi di ogni nuovo anno (e questo quaderno è uscito nei primi mesi dell'anno 2016, quando è la calendarizzazione della memoria a tenere banco). La composizione del "quaderno" è volutamente eterogenea e rimanda a spunti di origine filosofica, letteraria e psicanalitica. Gli autori sono, in ordine di apparizione, Felice Cimatti, Silvia Vizzardelli, Walter Procaccio, Paolo Carignani, Alessandra Ginzburg, Daniela Angelucci e Antonio Ciocca. Il tema intreccia i tanti assi dell'espressione filosofica e letteraria. Ad esempio il rapporto tra scrittura e oblio andrebbe indagato tanto quanto quello tra scrittura e memoria/testimonianza. Ma ci si sposta continuamente nei terreni dell'analisi, del desiderio, del giudizio, dell'osservazione e non si tralasciano infine le "scorribande" mistiche della riflessione sull'oblio, particolarmente evidenti nel caso di Wilfred Ruprecht Bion, lo psicanalista anglo-indiano da cui è tratto quella sorta di slogan del titolo ("No memory, deside, understanding"). Proprio nel contributo più incentrato sull'opera di Bion e sulla sua ricezione, Antonio Ciocca conclude scrivendo che "l'oblio, la pratica assidua e rigorosa dell'oblio, è il fiume Lete dove lavar via il noto, il saputo per rischiare di incontrare un'idea, un pensiero nuovo che fluttua ma che nessuno reclama." O come oblio.
Commenti
Posta un commento