Edmond Jabès, "Il libro dell'ospitalità": il miracolo dell'universo è che non c'è miracolo. E noi non siamo capaci di provarlo
Questo articolo è apparso su Librobreve nel maggio 2017.
Leggere Il libro dell'ospitalità di Edmond Jabès (Il Cairo, 1912 - Parigi, 1991), riproposto a distanza di 25 anni dalla prima edizione italiana sempre da Raffaello Cortina Editore (pp. 120, euro 11, a cura di Antonio Prete) vuol dire fare esperienza di un libro e di una scrittura che sanno di essere scrittura e libro. L'affermazione è volutamente tautologica, ma servirà da sponda, per continuare a interrogarci su questi due cardini del nostro percorso attraverso il deserto della pagina. Tutto accade attorno a scrittura e libro, pur nella consapevolezza che nella traduzione, nel caso di Jabès, si può perdere molto del valore fonico della prosa (fu poeta a stretto contatto con i surrealisti e il suo caso costituisce una riprova di quanti e quali furono gli innesti e gemmazioni di quel gruppo). Tornando al nostro ragionamento iniziale, non tutte le scritture sanno di esserlo, o meglio, alcune fanno finta di non essere scrittura. Una lettera, uno statuto, un verbale, un libro di saggi o persino un libro di poesie sanno di essere scrittura. Un libro di fiction finge due volte, perché quasi sempre finge a sé stesso persino del suo status di essere scrittura, oltre alla fiction primaria che riguarda la sua storia. Qui può inserirsi una differenza e distinzione tra narrazione e scrittura, ma per il momento non possiamo affrontarla. Il testo di una lettera, di un saggio, di una recensione, di una poesia sa di essere testo e sa di essere quello. Tale consapevolezza appare invece interdetta a quella cosa che comunemente chiamiamo narrativa. Ne Il libro dell'ospitalità i temi primari del poeta francese si radunano come foglie governate da un mulinello di vento: l'esodo e l'esilio (lasciò l'Egitto per Parigi nel 1957, a causa della crisi del canale di Suez del 1956), il deserto e la solitudine, lo straniero e il profugo precipitano nei pensieri brevi in cui, per l'appunto, la vita si trova ad assomigliare alla scrittura e la scrittura al libro. Nel suo poscritto Antonio Prete ricorda che la lunga tradizione dell'ermeneutica negativa, passaggio obbligato per chi affronta Jabès, la quale ha origine nell'assenza del Nome di Dio dalle lettere nascoste e disperse per il mondo, è sottratta da Jabès
Leggere Il libro dell'ospitalità di Edmond Jabès (Il Cairo, 1912 - Parigi, 1991), riproposto a distanza di 25 anni dalla prima edizione italiana sempre da Raffaello Cortina Editore (pp. 120, euro 11, a cura di Antonio Prete) vuol dire fare esperienza di un libro e di una scrittura che sanno di essere scrittura e libro. L'affermazione è volutamente tautologica, ma servirà da sponda, per continuare a interrogarci su questi due cardini del nostro percorso attraverso il deserto della pagina. Tutto accade attorno a scrittura e libro, pur nella consapevolezza che nella traduzione, nel caso di Jabès, si può perdere molto del valore fonico della prosa (fu poeta a stretto contatto con i surrealisti e il suo caso costituisce una riprova di quanti e quali furono gli innesti e gemmazioni di quel gruppo). Tornando al nostro ragionamento iniziale, non tutte le scritture sanno di esserlo, o meglio, alcune fanno finta di non essere scrittura. Una lettera, uno statuto, un verbale, un libro di saggi o persino un libro di poesie sanno di essere scrittura. Un libro di fiction finge due volte, perché quasi sempre finge a sé stesso persino del suo status di essere scrittura, oltre alla fiction primaria che riguarda la sua storia. Qui può inserirsi una differenza e distinzione tra narrazione e scrittura, ma per il momento non possiamo affrontarla. Il testo di una lettera, di un saggio, di una recensione, di una poesia sa di essere testo e sa di essere quello. Tale consapevolezza appare invece interdetta a quella cosa che comunemente chiamiamo narrativa. Ne Il libro dell'ospitalità i temi primari del poeta francese si radunano come foglie governate da un mulinello di vento: l'esodo e l'esilio (lasciò l'Egitto per Parigi nel 1957, a causa della crisi del canale di Suez del 1956), il deserto e la solitudine, lo straniero e il profugo precipitano nei pensieri brevi in cui, per l'appunto, la vita si trova ad assomigliare alla scrittura e la scrittura al libro. Nel suo poscritto Antonio Prete ricorda che la lunga tradizione dell'ermeneutica negativa, passaggio obbligato per chi affronta Jabès, la quale ha origine nell'assenza del Nome di Dio dalle lettere nascoste e disperse per il mondo, è sottratta da Jabès
al peso del suo simbolismo, alla mistica della lettera, ma anche al puro significante; ne fa, invece, uno spazio immaginale, dove la parola affronta il vuoto; il vocabolo - questa soglia silenziosa della lingua - muove verso il dire, la sabbia guarda da una distanza infinita il cielo dei significati.
Il libro dell'ospitalità si svolge al cospetto di una scrittura che tocca i limiti e rimbalza su alcuni dei temi che la nostra epoca ci sbatte in faccia ogni giorno attraverso i media ma che in realtà sono temi vecchi quanto l'umanità, solo più infernale è diventato il tratto nel quale li accogliamo e ne dibattiamo: sofferenza e dolore, ospitalità appunto e estraneità, nomadismo e una certa angoscia dell'abitare. In Jabès si ravvisa persino angoscia di abitare certe forme di scrittura note e la varietà di frammenti e tessere collocate da Jabès nella propria opera ne dà testimonianza (del resto difficile è dire quale scrittura prevalga in Jabès, se quella poetica o quella filosofica, essendo lui stesso un esempio ormai classico di come le due si sono compenetrate). Poiché abbiamo chiamato più volte in causa la scrittura, ecco un breve saggio:
- Quale immagine ti suggerisce il pensiero? - domandò il discepolo al maestro.
- Forse quella d'un astro divorato dai propri fuochi, un astro che si distingue per l'intensità dei suoi bagliori.
"Il tempo del pensiero è sempre e soltanto il tempo d'un progressivo acclimatarsi alla morte: scalfittura d'un epitaffio", diceva.
E aggiungeva: "Si muore dinanzi alla parola che non dice altro che la nostra morte".
Dicevamo della centralità dell'essere libro. Tutta la produzione di Jabès si incardina attorno alla consapevolezza e vera "promessa incerta" del libro, inevitabilmente legata al destino dell'ebreo, quasi inteso come destino di scrittore per antonomasia. Sono tanti i libri consegnateci dall'autore, molti dei quali tradotti in italiano. Quello corposo "delle interrogazioni" (Bompiani), "dei margini", "della spartizione", "delle somiglianze" (Marietti), "della sovversione non sospetta" (SE), "del dialogo" (Manni), "della condivisione" (Raffaello Cortina). E questo libro postumo, scritto nella trasparenza di un addio, a me pare come il libro impossibile da recensire, per cui mi limito a evidenziare la riproposizione di questa pubblicazione, invitando all'esperienza di lettura di pagine che tornano a interrogarci sui molti misteri dell'ospitalità (problemi centrali, sin da Adamo ed Eva) e sul miracolo dell'universo ("Il miracolo dell'universo è che non c'è miracolo. E noi non siamo capaci di provarlo.")
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