Questo scritto è apparso in Librobreve nel marzo 2014.
"Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare". Più passano gli anni e più mi rendo conto di quanto stupore e quanta acqua scorra sotto questo attacco di una famosissima canzone di Luigi Tenco. Certo, bisognerebbe intendersi bene sul quel niente da fare, oltre quello che dispiega in un primo momento. Incomincio così a ricordare la centralità che la figura di Luigi Tenco può - e a mio avviso dovrebbe - rivestire nell'universo della scrittura in italiano, anche in quella poetica. E non sto pensando a malsane e sbagliate sovrapposizioni tra poesia e cosiddetta canzone d'autore. Su questo sto con Valerio Magrelli. Non so se avete presente un video, passato di recente anche da Rai Storia, in cui il poeta romano quasi si accanisce a marcare bene i confini tra poesia e canzone. Lì Magrelli ha ragione da vendere. Sono due cose così diverse, lontanissime, che non si possono confrontare, pena la perdita di libertà delle loro forme e un fraintendimento radicale. Anche se la canzone si basa su dei testi che si possono leggere come una poesia e la poesia si dice abbia musica e ritmo che si possono accogliere come canzone, poesia e canzone non vanno confuse o avvicinate troppo, mai, anche quando la tentazione diventa forte. Restano quadranti diversi di un piano cartesiano. Molti anni fa mi rincuorai durante una chiacchierata con Andrea Zanzotto, scoprendo che ad esempio su De André pensavamo le stesse cose e forse storcevamo persino il naso nella stessa direzione quando sentivamo parlare di lui come "poeta" (non ricordo quale fatto di cronaca avesse riguardato il cantautore genovese). Al di là del fatto che, pur rispettandolo, non ho mai amato De André (trovo un Piero Ciampi molto sopra, solo per fare un nome), c'era il rischio di dare adito a fraintendimenti pericolosi che potevano avere un effetto domino sugli errori di percezione negli anni a seguire. Questo non significa che sia contrario a certe ibridazioni, a certi esperimenti o alla frequentazione simultanea di queste forme, anzi. Il legame tra poesia e musica resta però controverso, aperto, doppio legame, batesonianamente double bind.
Io credo che Luigi Tenco dovrebbe essere finalmente tolto, strappato a forza dalle discussioni che riguardano soltanto Sanremo, il suo suicidio, la sua carriera, la tradizione genovese e tutti quelli che l'hanno coverizzato (compreso l'insospettabile Mike Patton dei Faith No More e Mr. Bungle, che ha dichiarato il suo amore per il pop italiano di quegli anni e come Tenco lo abbia condotto alle lacrime). E quindi capire perché la traccia di Tenco sia una di quelle più profonde del secolo scorso, non solo per la musica, ma persino per la storia del nostro paese (è qui che una bibliografia forse manca, anche se molti sono i titoli a Tenco dedicati). Mi toccherà parlare brevemente dell'esperienza personale, ma non ho scelta. E forse va bene così. Era mio padre che teneva molti vinili di Tenco a casa e che lo amava. Ricordo quando, bambino o poco più, ascoltai la prima volta "Cara maestra" e mi dissi circa "ah però, facile, semplice, vera". In realtà erano altre le canzoni con le quali avrei dovuto fare i conti e con le quali sto tuttora facendo i conti. "Vedrai, vedrai", ad esempio, diventò né più né meno la canzone della generazione con cui immaginavo mio padre, la cosiddetta generazione del baby-boom, un'espressione strana ed edulcorata per intendersi (e autodefinirsi) in fondo come "nuova fresca carne da macello" dopo la "carne macellata dalla guerra". Altri spazi, altre velocità hanno comunque spappolato loro e noi. Ecco, anch'io ho spesso pianto con le canzoni di Tenco. In realtà soprattutto con due, con "Vedrai, vedrai" e "Lontano lontano" (due titoli simili, tra l'altro, con quella ripetizione). Credo - non lo so - che i motivi per cui ho pianto io siano diversi da quelli per cui ha pianto Mike Patton. (Mi piacerebbe incontrarlo 5 minuti per chiederglielo, l'ho visto dal vivo una sola volta a Milano, Sonoria '95, durante il tour di King for a Day... Fool for a Lifetime, rassegna bella, peccato solo per l'annullamento dei Massimo Volume). Io piangevo per una sorta di pietà che avvertivo, forse pena, per tutta quella generazione, una pietà che quasi trovava nel profilo di Tenco nel vinile di Se stasera sono qui il suo simulacro. Immaginavo mio padre al bar del paese nella pausa pranzo con degli amici, prima di ritornare al lavoro, al primo impiego da ragioniere in un mobilificio presto fallito di Casale sul Sile, distante da dove abitavano. Immaginavo il ritorno a casa descritto in "Vedrai, vedrai" quando non si ha "neanche voglia di parlare" ma piuttosto - era il suo caso - si ha voglia di pensare al "grano da crescere" o "i campi da arare", in un frangente di migrazione interna fortissima che però non l'aveva toccato ("Ciao amore ciao"). Ovviamente era un pensare che provava ad abbracciare tutta quella generazione, avvolta in una sorta di strana sofferenza, uno strano male mitigato dai luccichii del boom che ha lasciato davvero terra bruciata. Pensavo e trovavo anche il motivo di un distacco profondo. E questo era un pensiero che si allargava a tutta quella generazione, donne incluse (penso a una canzone come "Una brava ragazza"), alle madri. Eppure, lo dico a costo di sembrare poco correct: per me Tenco rappresenta più un pensiero che parte e ritorna agli uomini.
Oltre a quelle già citate, sono tante le canzoni di Tenco su cui varrebbe la pena sostare. (Ora mi tornano in mente "E se ci diranno" o la stupenda "Quando", che in un fazzoletto tiene assieme tutte le parole di una tradizione lirica.) In realtà è "Lontano lontano" però la canzone dove sento tutta la grandezza e il pianto irrinunciabile che ci offre Tenco. A partire da quell'uso di un avverbio di luogo vicino a nel tempo, nell'attacco, e poi da quella macchia che si spande come un liquido sopra una tavola per tutta la canzone e che passa dalla sponda della determinatezza (occhi, occhi, sorriso, labbra, mio volto, ad un tratto) a quella della vaghezza, la quale non può che spingerci verso Leopardi, e che ritroviamo in altri segmenti del testo (lontano lontano, qualche cosa, timidezza, un po' in giro, per caso, l'aria triste, chissà come e perché). E tutto oscilla tra futuro e imperfetto, come bicchieri attaccati sopra una tavola durante un terremoto. Questa canzone è centrale nella mia memoria ora perché è una canzone d'amore e sul volto, sulle scosse elettriche che collegano tra loro i volti nei diversi luoghi e tempi, e la percezione che abbiamo noi dei volti, la quale regola, almeno secondo me, uno spazio importante della vita. E poi è una canzone che nomina il mondo, il modo che abbiamo di portare in noi gli altri, l'accettazione della vita, la collocazione spaziale dell'amore. Credo risieda qui la grandezza di questo testo e di questa canzone. Non so, ma quando ho cominciato, più tardi, a leggiucchiare qualche libro di neuroscienze, su come queste studiano i processi cerebrali di riconoscimento del volto dell'uomo, ho iniziato a immaginarmi Tenco come un neuroscienzato che aveva deciso di cantare (e a vedere come stanno andando le frettolose neuroscienze, forse non ha nemmeno sbagliato strada). Pensavo proprio a "Lontanto lontano", a cosa innescano i volti, i movimenti facciali, in questa canzone. E tanto per cambiare ho pianto, ancora una volta.
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