Giuseppe Berto e "Anonimo Veneziano"

In questo mese di novembre che si avvia alla fine sono ricorsi quarant'anni dalla morte di Giuseppe Berto (Mogliano Veneto, 27 dicembre 1914 – Roma, 1 novembre 1978). Ripropongo questo pezzo apparso in Librobreve lo scorso aprile.


Ad un certo punto de Il dilemma Giorgio Gaber canta "l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo". È una bella canzone sulla coppia, che mi pare abbia qualcosa da dire su questo "tema". Può capitare di ripensarla leggendo questo libro. Non so quanti libri oggigiorno dicano qualcosa di interessante sulla coppia o sulle coppie. So che a suo tempo qualcosa di interessante lo disse Giuseppe Berto con Anonimo veneziano, inizialmente film del 1970 diretto da Enrico Maria Salerno per il quale Berto scrisse la sceneggiatura e i dialoghi. Di lì a poco, nel 1971, il testo uscì anche come "Testo drammatico in due atti". Solo nel 1976, direttamente nella collana BUR, e curiosamente sollecitato dal lavoro della traduttrice inglese Valerie Southorn che ne aveva ingegnosamente trasformato le didascalie teatrali in qualcosa di più vicino a un romanzo, il testo approdò alla versione di romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. Possiamo leggerla nuovamente oggi, nell'anno del quarantennale della morte dello scrittore, anche in questa nuova edizione di Neri Pozza (pp. 112, euro 15, con introduzione di Cesare De Michelis e con la prefazione dell'autore all'edizione del 1976). In questo libro Berto consegna una Venezia "anonima" e inedita, come ha ricordato Diego Valeri. I giochi metaletterari con Thomas Mann de La morte a Venezia o con John Ruskin de Le pietre di Venezia sono sostanza della descrizione che interessa la città della laguna, colta già nel suo cancro conclamato. Ma vi sono i giochi interni e i fraseggi musicali con il compositore Alessandro Marcello, fratello meno fortunato di Benedetto, eppure autore di quel capolavoro di concerto del 1717 che diventa colonna sonora della parte finale e della scena conclusiva del libro. Del resto la storia, abbastanza nota ormai dopo quarant'anni di buon successo cinematografico e librario, ci mostra all'inizio un genio un po' sgualcito "che non ha avuto molta fortuna" - proprio come Alessandro Marcello - mentre aspetta l'ex moglie in arrivo col rapido da Milano a Venezia Santa Lucia.

L'inizio vero in realtà è una breve descrizione di una Venezia brulicante, dove la gente fa le cose di ogni altra gente, ma con parvenza di commedia, quasi "un invito affinché la morte facesse più in fretta". I ratti, spesso nominati nel testo, vanno moltiplicandosi in attesa sotto i ponti. Gli avvallamenti delle pietre si sentono sotto i piedi. Il protagonista ringrazia l'ex moglie per essere venuta, anche se lei non conosce il motivo della chiamata. Non sanno bene dove andare. E così, lasciando la stazione dei treni, s'incamminano per qualcosa che è poco più di mezza giornata da trascorrere assieme, con l'orario dei treni per il ritorno a Milano a far da orizzonte, quasi una ghigliottina variabile e visibile che incombe sullo sviluppo della vicenda. Si può dire altro, e in fondo non c'è tanto da "spoilerare" in una storia ormai abbastanza nota che all'epoca fece scalpore anche per le assonanze con il film Love Story. I due hanno avuto un figlio e da otto anni non si vedono. Lei ha scelto di sposare un uomo ricco e di vivere a Milano. Da quest'uomo ha avuto una figlia. Prendono un vaporetto, vanno a consumare assieme un pasto in una trattoria che offre loro un piatto scadente. Tornano a camminare, lui ogni tanto le scosta i capelli e sente il bisogno di sfiorarla, litigano e parlano ancora, alternano freddezza a slanci dove sembrano capirsi. Infine si dirigono verso la casa di lui e alle prove finali per la registrazione del concerto di Alessandro Marcello nel quale lui ha la parte prominente dell'oboe. Pensando alla registrazione del concerto lui pensa al figlio. 

Sui dialoghi si dovrebbe spendere una frase in più, anzi, leggendo questo libro è utile prestare attenzione proprio allo spazio tra i dialoghi. Perché se è vero che quest'opera nasce per il cinema e quindi si concentra primariamente sui dialoghi e sulla sceneggiatura, la grandezza di Berto nella stesura del romanzo breve del 1976 è stata invece quella di inserirsi e lavorare nello spazio che sta tra i dialoghi. Mi capita di riscontrare - ma potrei essere solo in questo rilevamento - che i dialoghi di tanta prosa contemporanea rendono spesso un personaggio un po' più o un po' meno di quello che è, lo incalcano e deformano. Insomma, la massima mimesi della parola in presa diretta, in narrativa, rischia di diventare il massimo imbroglio (pensiamo poi anche al gigantesco problema affrontato dal cinema e dai doppiaggi). Quello che ha saputo fare Giuseppe Berto in Anonimo Veneziano del 1976 e ciò che costituisce la grandezza di quest'opera è lo sforzo di scrittura che l'autore ha messo tra un dialogo e un altro, tra una battuta e l'altra. Lo ha fatto ora per correggere un tiro, ora per depistare, ora per farci dubitare, ora per plasmare scultoreamente le poche ore di vita assieme di questa ex coppia che ritorna appunto coppia per qualche istante. Farlo senza portarsi dietro le prime destinazioni d'uso del testo è il prodigio contenuto in questo libro breve.

A indagare meglio scopriamo che il protagonista, malato di cancro e prossimo alla morte, ha chiesto all'ex moglie di raggiungerlo a Venezia proprio per parlare. In un passo, che tra l'altro ricorda così bene il frammento di Gaber, si legge:
[...] C'è un canale con tutte gondole ai lati, messe a riposo per l'inverno. E case modeste, come di campagna, e campielli con biancheria ad asciugare, e bambini che giocano al pallone. Passeremo di qui, mi dicevo, guarderemo tutte queste cose e parleremo. Non abbiamo mai veramente parlato, noi due. Abbiamo sempre fatto l'amore o litigato. Questa volta mi sarebbe piaciuto parlare di cose qualsiasi, le più stupide possibile per non trovar da discutere, e tu avresti capito, dopo. Dopo avresti capito, ma senza soffrire molto, e magari me ne saresti stata grata, mi avresti ammirato. Invece ci siamo messi a litigare come il solito, e poi, al primo momento buono, t'ho spiattellato: guarda che sto morendo. Non sono cambiato. Autocompassione, narcisismo, insicurezza, le piccole astuzie di tutti i bambini che vogliono attenzione e simpatia. Non ce l'ho fatta a crescere, io.
Amore e morte, ancora una volta. L'ennesima. Morte e dialogo: l'ennesimo dialogo con la morte. Anni prima della legge sul divorzio Giuseppe Berto ha intercettato alcune linee di forza essenziali sul discorso che riguarda la coppia, duratura o effimera che sia, sulla sua necessità o meno. Lo ha fatto trasformando una storia di un film in un libro che si conclude davvero in musica, dove la finalità irrimediabile di ogni parola da scegliere è diventata per l'autore un "piacere tormentoso" e lungo. Il finale, soprattutto per quell'avverbio abbastanza sul quale è posta la parola FINE, merita anch'esso di essere riportato. Lei ha appena abbandonato le prove per tornare a Milano, dopo aver rinunciato a rimanere con l'ex marito morente. L'orchestra può quindi rimettersi a suonare, dopo aver sbagliato una prova.
Di nuovo sono lì, immobili nella breve ed interminabile attesa, e più facile è la concentrazione, dato che l'estranea è andata via. Al suo cenno gli archi cominciano, dapprima appena percettibili, poi più sicuri nei lenti accordi d'attesa. E lui attacca, la nota ferma, seguita con necessità e precisione dalle altre, nell'antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d'una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza.


Alessandro Marcello, Oboe Concerto in D minor
Heinz Holliger, oboe
I Musici
Registrato nel luglio 1986 
a La Chaux-de-Fonds, Svizzera

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